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Lo stile Isolabella: rispetto della giustizia e del cliente

Giuseppe Salemme (MAG, 22 marzo 2021)

Dinastia legale cresciuta nel segno del white collar crime. MAG incontra Francesco Isolabella che racconta questa storia professionale a cui partecipano una ventina d’avvocatidi Giuseppe Salemme

“Il diritto penale è la sfida più difficile sotto il profilo giuridico, fattuale e umano. In questa sfida, la sola bandiera del penalista è il proprio cliente” è la frase che campeggia in primo piano sul sito web dello studio Isolabella: appartiene all’avvocato Lodovico Isolabella, che lo fondò negli anni ‘60 e che continua a guidarlo assieme ai figli Francesco e Luigi Isolabella. Si tratta di una delle storiche boutique penalistiche milanesi: tra le prime impegnate sul fronte del white collar crime, in quelli che furono i primi grandi casi italiani in materia; e che tuttora rivendica l’importanza del proprio stile professionale come tratto distintivo, rappresentato dall’unione di “forma e sostanza” al servizio del cliente. Ripercorrere la storia dello studio Isolabella significa poter leggere la professione legale di oggi attraverso una chiave di lettura consolidatasi negli anni. Ed è esattamente quello che ha fatto Francesco Isolabella nell’intervista rilasciata a MAG.

«La nostra è una storia familiare, che parte dal nonno, avvocato a Milano. Negli anni ‘60 fu poi nostro padre Lodovico ad avvicinarsi al diritto penale come per una sorta di fascinazione, muovendo i suoi primi passi insieme ai più grandi professionisti del settore, come i fratelli Degli Occhi e Valerio Mazzola, per poi decidere, a cavallo tra gli anni ‘60 e ‘70, di mettersi in proprio, fondando lo studio che oggi conduciamo insieme».

Diritto penale come vocazione, insomma. E il focus sul white collar crime quando è iniziato? 

Allora nascevano i primi casi di diritto penale societario, finanziario e bancario: dalla bancarotta della Banca Privata Italiana agli svariati processi per inquinamento che gravavano sulle grandi aziende; poi la centralità delle società nel diritto penale si incrementa ulteriormente: con il processo per corruzione “Petroli” e con la vicenda del Banco Ambrosiano, e così avanti fino ai primi anni 90 con Mani pulite. Momento che ha rappresentato da un lato il punto di arrivo di un intero mondo, non solo giuridico e giudiziario ma politico, culturale e sociale, e che ha sancito la comparsa, via via sempre più marcata, del “diritto penale d’impresa”. L’importanza di quegli anni, tra la metà degli anni 80 e 90, ha segnato una crasi tra il prima e il dopo, istituzionalizzando di fatto il ruolo degli avvocati penalisti non più come chirurghi – anche eccezionali – di pronto soccorso, ma come chirurghi specialisti e, più ancora, come clinici chiamati a intervenire nella prevenzione.

In che modo è cresciuto lo studio durante tutti questi anni?

Siamo sempre cresciuti per linee interne: forse proprio per l’imprinting familiare abbiamo – credo e spero – un’identità chiara e precisa. Riteniamo che essa non debba essere equivocata e quindi non avrebbe senso mescolare modi di operare diversi. L’ideale è poter assorbire le diversità, ma questo avviene più facilmente con gli scambi culturali e professionali che avvengono durante i processi in cui si incrociano vari stili.

Si spieghi meglio…

Il mondo dei penalisti ha davvero un modus operandi molto speciale – voci di corridoio dicono che durante Mani pulite i magistrati riconoscessero dal modo di presentarsi di ogni avvocato l’appartenenza ad uno studio piuttosto che ad un altro – a dimostrazione che lo stile professionale è davvero imprescindibile. E per stile intendiamo in primo luogo il modo di tutelare gli interessi del nostro assistito, che deve essere sostanziale e non formale ma non può tralasciare la forma. Perché l’assenza di forme rischia di trasformarsi in sciatteria. Così come l’eccessiva ricerca della forma rischia di comunicare solo narcisismo e superficialità. È per questo che per noi è fondamentale crescere un vivaio di giovani professionisti che abbiano da subito respirato il nostro modus operandi e siano permeati del nostro “linguaggio”.

Siete uno studio orgogliosamente milanese. Avete mai sentito l’esigenza di espandervi anche geograficamente?

In parte la risposta è implicita nell’affermazione precedente: abbiamo clienti in tutto il mondo e li seguiamo in ogni città in
cui abbiano bisogno di essere presenti o rappresentati. La centralità del nostro ufficio di Milano ci consente di mantenere salde le radici identitarie e di non disperdere le energie in più uffici. Questa considerazione ha prevalso anche quando, in passato, abbiamo ragionato sulla possibilità di aprire un ufficio all’estero. Per poterlo fare avremmo dovuto dividerci, separarci, qualcuno di noi avrebbe dovuto andare via. Ma noi siamo avvocati in Italia, non all’estero.

E la nostra presenza fuori confine avrebbe inevitabilmente coinciso con un’attività non più professionale ma commerciale. Da vinicoltori quali siamo, in famiglia crediamo che le nostre bottiglie siano un’ottima metafora di noi stessi. Siamo attenti a preservare la qualità e la passione con cui vinifichiamo o seguiamo i nostri casi, più che ad aumentare il numero di bottiglie.

Quanti avvocati contate attualmente?

Siamo una ventina di professionisti: e tra tutti spiccano Umberto Ambrosoli, Alessandra Mandolesi e Alberto Sanjust di teulada. Come detto prima, la gran parte di essi è con noi già da diversi anni. Ma ovviamente ci sono anche nuove leve, giunte a noi con una preparazione altamente qualificata, ma che stanno imparando il mestiere da chi ha esperienza consolidata. Riflettendo ora per rispondere, realizzo che siamo in una condizione di discreto equilibrio di genere.

Dal punto di vista numerico rientrate nella definizione di “boutique”. Cosa significa per voi essere una boutique penalistica nel 2021? 

Per noi rimangono fondamentali il nostro heritage e lo stile: che poi è quello di chi ha fondato questo studio e coincide con il rispetto della giustizia e del cliente, un risultato che si può ottenere solo con la libertà di decidere e con la capacità di dire no. Un linguaggio difficile da apprendere che però appartiene a tutti quelli che hanno avuto la ventura di lavorare con nostro padre e che per questo speriamo che rimanga inalterato.