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Potere disciplinare senza abusi

Avv. Nicola Pietrantoni – (Italia Oggi, 16 maggio 2022)

L’abuso del potere disciplinare in ambito lavorativo è compatibile con il cd “stalking occupazionale” e può portare a conseguenze anche di natura penale.

In particolare, integra il reato di atti persecutori, previsto e disciplinato all’art. 612-bis del codice penale, la condotta di mobbing da parte del datore di lavoro consistente in una mirata reiterazione di plurimi atteggiamenti convergenti nell’esprimere ostilità verso il lavoratore dipendente e preordinati alla sua mortificazione ed isolamento nell’ambiente di lavoro.

Tra i vari comportamenti che possono tradursi in atti persecutori, infatti, assume un particolare significato proprio l’utilizzo strumentale del potere disciplinare che può culminare in licenziamenti ritorsivi e determinare un vero e proprio vulnus alla libera autodeterminazione del lavoratore.

In questi termini, si è recentemente espressa la Corte di cassazione (V Sezione Penale) con la sentenza n. 12827/2022 (motivazioni depositate il 5/4/2022), con la quale ha rigettato il ricorso presentato dal presidente di una società di servizi ritenuto responsabile, nei precedenti giudizi di merito, anche per il delitto di atti persecutori.

L’imputazione a carico del datore di lavoro. Più nello specifico, si legge nelle motivazioni della sentenza di legittimità, il ricorrente era stato condannato per aver posto in essere una serie di condotte persecutorie nei confronti di alcuni dipendenti, consistite in “…reiterate minacce, anche di licenziamento, e denigratorie, nonché attraverso il ripetuto recapito di ingiustificate e pretestuose contestazioni di addebito disciplinare” che avevano “…ingenerato nelle persone offese un duraturo e perdurante stato di ansia e di paura così da costringerle ad alterare le loro abitudini di vita”.

La fattispecie contestata, lo si ricorda, prevede che “…salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da un anno a sei anni e sei mesi chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita” (art. 612-bis, c.p.).

Nel caso di specie, inoltre, era stata contestata al datore di lavoro anche l’aggravante ex art. 61, n. 11 del codice penale, che comporta un aumento di pena ove il fatto sia commesso “…con abuso di autorità o di relazioni domestiche, ovvero con abuso di relazioni di ufficio, di prestazione di opera, di coabitazione, o di ospitalità”.

La tesi della difesa. Il ricorrente, in sede di legittimità, ha sostanzialmente offerto due argomenti difensivi. Con un primo motivo, ha lamentato la mancata valorizzazione, da parte dei giudici di merito, di una circostanza che sarebbe stata documentata nel corso del dibattimento e che avrebbe dovuto portare la Corte di appello a valutare diversamente la condotta oggetto di imputazione: più precisamente, il fatto che “…tutti i provvedimenti adottati nei confronti dei lavoratori erano stati condivisi ed esaminati dal consiglio di amministrazione della società e che le iniziative dell’organo gestorio erano finalizzate esclusivamente al miglioramento della produttività della stessa”.

Secondo la difesa dell’imputato, infatti, la doverosa valutazione di questo elemento probatorio avrebbe consentito di accertare che alcuni dipendenti avevano assunto un particolare atteggiamento ostile proprio rispetto a quelle trasformazioni produttive ed organizzative attuate dal datore di lavoro in seno alla società, situazione che avrebbe poi innescato, sempre secondo l’impostazione difensiva, un forte conflitto tra l’imputato e i dipendenti iscritti alla medesima associazione sindacale. Il comportamento del datore di lavoro, oggetto di contestazione ex art. 612-bis, avrebbe dovuto essere collocato nella dimensione lavorativa, in quanto originato esclusivamente dalle molteplici direttive di lavoro e dagli ordini di servizio disattesi, in termini sistematici, da quei lavoratori (persone offese nel procedimento penale) nel periodo in cui l’imputato ricopriva la carica di presidente della società.

In altre parole, il ricorrente ha ritenuto che la condotta dell’imputato rappresentasse la concreta reazione alle continue violazioni, da parte dei dipendenti, delle direttive impartite dalla governance societaria, in un contesto di forte tensione che si era creata proprio tra quei lavoratori e i vertici aziendali. 

Con un altro motivo, il ricorrente ha contestato l’impostazione del Giudice di seconde cure, che avrebbe “…selezionato solo alcuni elementi di fatto emersi dall’istruttoria arrivando, sulla base degli stessi, ad affermare la sussistenza del delitto di atti persecutori, in realtà inesistente”.

La difesa ha sostenuto che il concetto di “mobbing”, in termini generali, non sia del tutto sovrapponibile alla fattispecie delittuosa di “stalking”, che richiede la realizzazione di comportamenti fortemente invasivi della sfera privata.

I due fenomeni, inoltre, avrebbero addirittura finalità antitetiche: mentre l’autore degli atti persecutori (il cd “stalker”) vuole creare, o mantenere, un rapporto stretto con la vittima, il mobbing è invece finalizzato a emarginare e allontanare, dal contesto lavorativo, il soggetto che subisce quelle condotte.

La posizione della Corte. I giudici della Cassazione, con la sentenza n. 12827/2022, hanno condiviso i precedenti orientamenti che considerano il mobbing compatibile con la fattispecie punita all’art. 612-bis, c.p., nei casi in cui il datore di lavoro, attraverso comportamenti mirati e reiterati, esprima un’evidente ostilità nei confronti del dipendente, finalizzata ad emarginarlo ed allontanarlo dall’ambiente di lavoro (Cass. pen., Sezione V, n. 31273 del 14/9/2020).

Con particolare riferimento al mobbing, è utile richiamare la giurisprudenza costituzionale e civile di legittimità che ha definito, in tempi relativamente recenti, questo complesso fenomeno come una “…serie di atti o comportamenti vessatori, protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore da parte dei componenti del gruppo di lavoro in cui è inserito o dal suo capo, caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione finalizzato all’obiettivo primario di escludere la vittima dal gruppo (Corte Cost., sent. 359/2003; Cass. civ., Sez. lav., 4/3/2021 n. 6079; Cass. civ., Sez. lav., 29/12/2020 n. 29767).

Nonostante il mobbing sia caratterizzato dalla specifica finalità di emarginazione del lavoratore, questo fenomeno presenta indubbi elementi di contatto proprio con i cd “atti persecutori”: “mobbing” e “stalking”, infatti, risultano entrambi proiettati alla reiterazione di condotte che ledono l’integrità psicofisica e la personalità della vittima.

Le condotte persecutorie ex art. 612-bis, in altre parole, possono esplicarsi in qualsivoglia contesto della vita della persona offesa (non solo nell’ambito privato e/o relazionale, ma anche in quello lavorativo), purché siano idonee a vulnerare il bene giuridico tutelato, ossia la libertà morale della persona offesa.

Per queste ragioni, la Cassazione ha sottolineato che “…nel caso di stalking occupazionale, per la sussistenza del delitto art. 612-bis c.p. è sufficiente il dolo generico, con la conseguenza che è richiesta la mera volontà di attuare reiterate condotte di minaccia e molestia, nella consapevolezza della loro idoneità a produrre uno degli eventi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice, mentre non occorre che tali condotte siano dirette ad un fine specifico”.

I giudici di legittimità, infine, non hanno valorizzato la tesi difensiva del datore di lavoro che avrebbe agito allo scopo di rendere più efficiente la società e che le iniziative da lui intraprese nei confronti dei dipendenti fossero condivise anche dal consiglio di amministrazione della società.

La Corte, infatti, ha rigettato il ricorso sostenendo che tutte queste circostanze non possono condurre all’insussistenza del reato contestato, “…atteso che l’efficienza della società non può essere raggiunta attraverso la persecuzione e l’umiliazione dei dipendenti ed in genere mediante la commissione di delitti ai danni della persona, dovendo la tutela della persona e, nel caso specifico, del lavoratore in ogni caso prevalere sugli interessi economici”. 

Art. 612-bis, c.p. (Atti persecutori)
“Salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da un anno a sei anni e sei mesi chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita (…)”.
Cass. Pen., V Sezione, Sent. n. 12827/2022
– Integra il delitto di atti persecutori (art 612-bis, c.p.) l’utilizzo strumentale del potere disciplinare, da parte del datore di lavoro, che può culminare in licenziamenti ritorsivi e determinare un vero e proprio vulnus alla libera autodeterminazione del lavoratore.   – Il mobbing è compatibile con la fattispecie punita all’art. 612-bis del codice penale (cd “stalking”), nei casi in cui il datore di lavoro, attraverso comportamenti mirati e reiterati, esprima un’evidente ostilità nei confronti del dipendente, finalizzata ad emarginarlo ed allontanarlo dall’ambiente di lavoro.
Mobbing secondo la giurisprudenza (Corte Cost. e Cass. Civ.)Stalking occupazionale (Cass. Pen.)
Serie di atti o comportamenti vessatori, protratti nel tempo posti in essere nei confronti di un lavoratore da parte dei componenti del gruppo di lavoro in cui è inserito o dal suo capo caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione finalizzato all’obiettivo primario di escludere la vittima dal gruppo.Reiterate condotte di molestie e di minaccia, anche di licenziamento (ad esempio, attraverso il ripetuto recapito di ingiustificate e pretestuose contestazioni di addebito disciplinare), idonee a cagionare uno degli eventi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice (art. 612-bis, c.p.): un perdurante e grave stato di ansia o di paura nel lavoratore dipendente, ovvero un fondato timore per la propria incolumità, ovvero l’essere costretto a modificare le abitudini di vita.