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Perimetro ampio al caporalato

Avv. Nicola Pietrantoni e Benedetta Falini – (ItaliaOggi, 8 agosto 2022)

È caporalato sfruttare la crisi e lo stato di bisogno dei dipendenti, laddove con esso si intende, per esempio, la circostanza secondo cui i lavoratori accettano le condizioni imposte per la necessità di mantenere un’occupazione, non esistendo possibili reali alternative di lavoro. Commette reato, quindi, non solo chi recluta, ma anche chi utilizza, assume o impiega manodopera approfittando dello stato di bisogno dei lavoratori: circostanza, quest’ultima, che non va intesa come una vera e propria condizione di necessità tale da neutralizzare, in modo assoluto, qualunque libertà di scelta, bensì come una situazione di grave difficoltà, anche temporanea, che limita la volontà della vittima inducendola ad accettare condizioni lavorative particolarmente svantaggiose.

A esprimersi in tal senso è stata la Corte di cassazione (IV Sezione Penale), che con la sentenza n. 24388/2022 depositata il 24 giugno scorso (si veda anche Italia Oggi Sette dell’1/8/2022 su altri aspetti della pronuncia), ha richiamato, ancora una volta, i presupposti necessari per integrare la fattispecie prevista all’art. 603-bis del codice penale, norma che punisce l’intermediazione illecita e lo sfruttamento del lavoro, il cosiddetto “caporalato”.

In estrema sintesi, non basta accertare le condizioni di sfruttamento cui sarebbero sottoposti i lavoratori, ma occorre verificare anche l’approfittamento della loro situazione di grave difficoltà, economica o di altra natura.

Origine ed evoluzione della norma. La fattispecie in esame, introdotta con il dl 13/8/2011, n. 138, prevedeva originariamente la sola rilevanza penale del c.d. “caporalato”, ossia l’attività organizzata di intermediazione che si realizza attraverso il reclutamento di manodopera finalizzato a realizzare condizioni lavorative di sfruttamento (mediante violenza, minaccia o intimidazione) e di approfittamento dello stato di bisogno o di necessità dei lavoratori.

Il legislatore, in buona sostanza, voleva colmare il vuoto di tutela con riferimento ad una serie di situazioni meno gravi di quelle riconducibili al delitto di “riduzione in schiavitù e tratta degli esseri umani” (art. 600, c.p.), ma più significative rispetto alle condotte sanzionate dalle contravvenzioni previste dalla legge 14/2/2003, n. 30 (c.d. “legge Biagi”).

La precedente formulazione dell’art. 603-bis, c.p., in estrema sintesi, puniva il solo “reclutatore”, mentre il datore di lavoro che sfruttava la manodopera approfittando dello stato di bisogno dei lavoratori non poteva rispondere autonomamente, ma solo a titolo di concorso con il primo.

La legge 29/10/2016, n. 199 ha ampliato il campo applicativo della norma, sancendo la punibilità dello sfruttamento di manodopera posto in essere dal datore di lavoro e svincolando la configurabilità del reato dall’esercizio di una qualsiasi forma di coercizione. Ha quindi provveduto a distinguere, equiparandole sul piano sanzionatorio, l’ipotesi di intermediazione illecita (c.d. caporalato) dalla diversa condotta di “sfruttamento del lavoro”, quest’ultima calibrata proprio sulla figura e sull’operatività del datore di lavoro; il legislatore del 2016, inoltre, ha introdotto la responsabilità ex d lgs 231/2001 degli enti coinvolti nelle attività illecite descritte all’art. 603-bis.

L’attuale articolo 603-bis, dunque, prevede non solo la responsabilità penale del soggetto che recluta manodopera allo scopo di destinare al lavoro presso terzi in condizioni di sfruttamento, approfittando dello stato di bisogno dei lavoratori, ma anche di chiunque “…utilizza, assume o impiega manodopera, anche mediante l’attività di intermediazione di cui sopra, sottoponendo i lavoratori a condizioni di sfruttamento ed approfittando del loro stato di bisogno”.

Se i fatti sono commessi mediante violenza o minaccia, infine, è previsto un aggravamento del trattamento sanzionatorio (reclusione da 5 a 8 anni e multa da 1000 a 2000 euro per ciascun lavoratore reclutato).

In definitiva, come hanno sottolineato anche i giudici di legittimità, ai fini della consumazione del delitto in esame, «…non basta che ricorrano i sintomi dello sfruttamento, come indicati dal terzo comma dell’art. 603-bis cod. pen., ma occorre l’abuso della condizione esistenziale della persona, che non coincide solo con la sua conoscenza, ma proprio con il vantaggio che da quella volontariamente si trae» (Cass. Pen., IV Sezione, sent. n. 7861/2022).

Lo sfruttamento.In merito al presupposto dello sfruttamento, che deve connotare tutte le attività oggetto di incriminazione (reclutamento, utilizzazione, assunzione o impiego della manodopera), il legislatore, nella prospettiva di facilitare la formazione della prova, non ha definito tale concetto ma si è limitato ad indicare, al comma 3 dell’art. 603-bis, alcune condizioni la cui eventuale sussistenza (anche solo una di queste) costituisce un “indice di sfruttamento”: a titolo esemplificativo, si ricordano la reiterata corresponsione di retribuzioni palesemente difformi rispetto a quelle previste dai contratti nazionali/territoriali di riferimento, nonché la ripetuta violazione della normativa relativa all’orario di lavoro, ai periodi di riposo, al riposo settimanale, all’aspettativa obbligatoria, alle ferie.

Con particolare riferimento agli “indici” di cui sopra, la Cassazione ha recentemente precisato che «…per aversi reiterazione, la condotta deve essere posta in essere nei confronti del singolo lavoratore, non essendo tale l’isolata violazione nei confronti di una pluralità di lavoratori, che configura semplicemente una pluralità di singoli inadempimenti, nei confronti di una molteplicità di soggetti» (sent. n. 7861/2022).

Sempre secondo la Suprema Corte, il giudice può anche valorizzare condotte diverse da quelle descritte dalla norma, dal momento che quest’ultime costituiscono «…‘indici’ del fatto tipico, cioè sintomi della sua sussistenza, che ben può risultare diversamente, purché si concreti la condizione di coartazione a condizioni di lavoro di cui si subisce l’imposizione» (sent. n. 7861/2022).

Lo stato di bisogno.Perché lo sfruttamento sia punibile, è necessario l’approfittamento dello stato di bisogno del lavoratore: in estrema sintesi, la condizione di difficoltà di questi, oltre a caratterizzare ogni attività prevista e punita dalla norma, deve essere conosciuta e costituire l’oggetto del vantaggio che il reclutatore e/o l’utilizzatore intendono realizzare proprio attraverso l’imposizione di quelle condizioni lavorative che integrano lo sfruttamento.

In merito all’identificazione dello stato di bisogno, non è poi necessario che corrisponda ad un vero e proprio stato di necessità o alla cosiddetta “posizione di vulnerabilità” di matrice sovranazionale, quest’ultima generalmente definita, a livello comunitario, come quella situazione in cui la persona non abbia altra scelta effettiva ed accettabile se non cedere all’abuso di cui è vittima.

Come ha evidenziato anche la consolidata giurisprudenza di legittimità, è invece sufficiente una situazione di grave criticità, anche momentanea, del lavoratore tale da limitare la sua volontà al punto da indurlo ad accettare condizioni lavorative di sfruttamento che altrimenti non prenderebbe in considerazione.