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Nicola Pietrantoni

Insulti su web, bastano gli indizi

Avv. Nicola Pietrantoni

Per gli insulti sui Facebook & co. scatta subito la diffamazione aggravata. Il reato commesso sui social network, infatti, può essere accertato dal giudice penale anche su base indiziaria. Non occorrono, cioè, specifiche indagini tecniche, per esempio sul cosiddetto indirizzo Ip (il codice numerico assegnato a ciascun dispositivo elettronico quando si connette), per ricondurre l’eventuale post diffamatorio all’imputato, essendo sufficiente che emergano, nel corso del giudizio, indizi gravi, precisi e concordanti a carico dello stesso. Lo ha stabilito la Corte di cassazione (quinta sezione penale), che, con la recente sentenza n. 24212/2021 (motivazioni depositate il 21 giugno scorso), è tornata sul tema della diffamazione consumata attraverso l’utilizzo dei social network.

Il caso. L’imputato era stato condannato per il delitto di diffamazione aggravata, previsto e punito all’art. 595, commi 1 e 3, codice penale, per aver pubblicato, sul profilo Facebook che riportava il suo nome, un messaggio dal contenuto offensivo ai danni della persona offesa, la quale aveva presentato, alle autorità inquirenti, un formale atto di querela con la relativa istanza di punizione. Il ricorrente, in sede di legittimità, ha contestato l’esito degli accertamenti condotti nel giudizio di merito, deducendo l’erronea applicazione della legge penale, nonché il vizio di motivazione con riferimento alla sentenza della Corte di appello. Secondo l’impostazione difensiva, in estrema sintesi, all’esito dell’attività istruttoria «…mancherebbe la certezza della riferibilità del profilo Facebook e dei post diffamatori» allo stesso imputato, con la conseguenza che la condanna risulta fondata esclusivamente su prove non certe. In particolare, la difesa ha lamentato l’omissione, da parte dell’autorità giudiziaria, di specifiche indagini tecniche su alcuni dati informatici, ritenute necessarie ai fini della prova circa la sussistenza del fatto contestato.

Le indagini tecniche richieste. Il ricorrente ha infatti evidenziato, tra le lacune che avrebbero caratterizzato l’istruttoria dibattimentale, l’assenza di approfondimenti tecnici sul cosiddetto indirizzo Ip, identificativo del codice numerico che viene assegnato dal servizio telefonico, in via esclusiva, a ogni dispositivo elettronico e che consente di individuare il titolare della linea. La difesa ha poi criticato il fatto che l’autorità giudiziaria non avesse disposto l’analisi dei cosiddetti file di log, indagine che permette di identificare i tempi e gli orari correlati all’attività di connessione.

I giudici di legittimità, nel caso in esame, hanno superato queste critiche, aderendo al costante orientamento della suprema Corte, secondo cui il reato di diffamazione aggravata, commessa attraverso strumenti informatici come i social network, può essere accertato a fronte della convergenza, pluralità e precisione di una serie di elementi che formano un preciso quadro indiziario a carico dell’imputato. Tra questi, i precedenti giurisprudenziali hanno richiamato e valorizzato il movente, l’argomento del forum dove è avvenuta la pubblicazione, le dinamiche del rapporto tra la parte lesa e l’imputato, nonché la provenienza del post offensivo dalla bacheca virtuale di quest’ultimo, con utilizzo del suo nickname.

La Cassazione ha ritenuto, quindi, che la diffamazione fosse stata correttamente verificata nei precedenti gradi di giudizio, «…pur non essendo stati svolti accertamenti sulla titolarità della linea telefonica utilizzata per le connessioni internet», proprio in quanto l’istruttoria ha fatto emergere «…elementi convergenti quali la provenienza del post dal profilo Facebook che indica il nome dell’imputata, nonché la circostanza che la ricorrente, resa edotta dei post offensivi…non abbia denunciato l’uso improprio del suo nome, prendendo le distanze dalle affermazioni offensive».

Falsi profili social. In merito all’eventuale uso improprio del nome, non vanno sottovalutati tutti quegli effetti, anche in termini di coinvolgimento in sede penale per il reato ex art. 595, cp, che potrebbero ricadere sulle persone che hanno subìto la contraffazione o un’alterazione del profilo sui social media. Sul web è molto frequente la creazione di profili falsi (in modo particolare, sui social più utilizzati) che vengono dotati di elementi idonei a trarre facilmente in inganno chiunque: basti pensare, per esempio, a quelli che riportano nome e cognome, dati o altre informazioni personali, nonché la fotografia dell’apparente utilizzatore. Se da un lato, quelle condotte manipolatorie integrano, oltre alle violazioni in materia di privacy (trattamento illecito di dati personali), anche il delitto di sostituzione di persona mediante furto di identità (art. 494, cp), dall’altro, gli eventuali post o messaggi diffusi attraverso un falso profilo verrebbero inevitabilmente attribuiti alla persona apparentemente titolare di quello spazio online, con tutti i potenziali riflessi negativi in capo a quest’ultima, tra i quali c’è sicuramente anche il coinvolgimento in un procedimento penale per diffamazione. Sul punto, è utile sottolineare come la mancata denuncia di cosiddetto furto di identità da parte dell’intestatario della pagina o del profilo social che ha veicolato il messaggio offensivo possa avere un significato potenzialmente indiziante nei confronti del soggetto accusato di diffamazione: la Suprema corte, in casi analoghi, ha infatti ritenuto non meritevole di censure l’affermazione di responsabilità, da parte del giudice di merito, di un imputato «…sulla base di indizi non equivoci, costituiti dal fatto che le frasi diffamatorie furono postate su un profilo Facebook creato a nome dell’imputato, con relativa fotografia del titolare» e «…dal fatto che l’imputato non ha mai inteso denunciare la creazione abusiva del suddetto profilo (per non esporsi, evidentemente, all’accusa di calunnia), né ha mai instato per la sua rimozione» (cfr. sent. n. 45339/2018).

Ciò non significa, però, che la persona cui fa riferimento un falso profilo Facebook, per esempio, risponda automaticamente ex art. 595, c.p., in sede penale, per messaggi offensivi che altri hanno ideato e pubblicato a sua insaputa. La sola provenienza del post, infatti, potrebbe certamente originare una indagine penale, ma deve essere necessariamente letta e considerata proprio in relazione ad altri eventuali indizi, quelli richiamati dalla sentenza n. 24212/2021, per accertare la responsabilità penale dell’imputato in ordine al fatto di reato che gli viene contestato.

Indizi gravi, precisi e concordanti (art. 192, cpp). Per quanto riguarda le caratteristiche degli indizi, infine, l’art. 192, comma 2, cpp, stabilisce che «l’esistenza di un fatto non può essere desunta da indizi a meno che questi siano gravi, precisi e concordanti». Nel corso degli anni, la giurisprudenza e la dottrina hanno offerto alcune importanti indicazioni per capire cosa debba intendersi per «gravità», «precisione» e «concordanza». Innanzitutto, l’indizio è grave quando è dotato di un elevato grado di persuasività e, dunque, ha un forte impatto direttamente sul convincimento del giudice: in altri termini, è un indizio che ha consistenza, resiste alle obiezioni e, dunque, è attendibile. Il carattere della precisione porta a ritenere che non vi siano altre e diverse interpretazioni e che non siamo in presenza di circostanze generiche. Sussiste il requisito della concordanza, invece, quando tutti gli indizi non contrastano tra di loro, ma convergono verso la medesima conclusione.