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La discrezionalità mette a riparo

Avv. Nicola Pietrantoni e Maria B. Lanzavecchia – (Italia Oggi, 20 giugno 2022)

La discrezionalità amministrativa protegge il pubblico funzionario dall’abuso d’ufficio. Alla luce della riforma del 2020, il reato non scatta per generiche violazioni di norme di legge o di regolamento, ma solo per atti commessi in violazione di specifiche regole di condotta, espressamente previste dalla legge, senza che ci siano, appunto, margini di discrezionalità. E purché la condotta sia l’espressione di una scelta autonoma di merito e non si trasformi, invece, in sviamento di potere. È stata la Corte di cassazione, con la sentenza n. 21643/2022 del 18/5/2022 (motivazioni depositate il 3/6/2022), a tracciare i confini del reato dopo la riforma del 2020. Il dl n. 76/2020 (convertito in legge n. 120/2020), infatti, ha riformulato il delitto di abuso di ufficio attraverso una parziale «abolitio criminis» della fattispecie. Alla luce del recente intervento legislativo, sono ora penalmente irrilevanti tutte quelle condotte che non consistano né in una violazione del dovere di astenersi in una situazione di conflitto di interessi (ipotesi non toccata dalla riforma), né in una violazione di specifiche regole di condotta previste dalla legge, o da atti aventi valore di legge, in termini tali da non lasciare, appunto, al pubblico ufficiale o all’incaricato di pubblico servizio alcun margine di discrezionalità nel proprio operato.

La nuova fisionomia del reato de quo, previsto e punito all’art. 323, c.p., ha trovato quindi ulteriore esplicazione attraverso la sentenza n. 21643, con cui la Sezione sesta penale della Cassazione, in accoglimento del ricorso presentato dalla difesa dell’imputato, ha annullato la sentenza della Corte d’Appello che si era limitata a rilevare il decorso della prescrizione prosciogliendo l’imputato nel merito.

Il caso. Secondo quanto si legge in sentenza, il ricorrente, consigliere comunale e componente di una commissione consiliare, era stato accusato di concorso in abuso di ufficio per aver contribuito alla commissione dell’illecito da parte di un assessore, il quale, in violazione del dovere di astensione, si era indebitamente interessato al buon esito della pratica edilizia promossa da due suoi prossimi congiunti.

In particolare, il contributo del ricorrente sarebbe consistito nell’aver agevolato l’invio della pratica all’ordine del giorno della commissione per il vaglio preliminare di ammissibilità, nonostante la pratica in questione risultasse «carente di documentazione».

Lo specifico elemento probatorio alla base di tale imputazione era dato dal contenuto di una conversazione telefonica intercorsa tra il consigliere comunale e l’assessore, nel corso della quale il primo, a fronte della preoccupazione manifestata dal secondo circa eventuali ritardi nella pratica dovuti a una possibile mancanza di documenti, lo rassicurava dicendogli che tutto era a posto.

Proprio in considerazione del contenuto della conversazione telefonica appena citata, il Tribunale, con decisione poi confermata dalla Corte d’appello, aveva ritenuto che non vi fossero gli estremi per pervenire a un’assoluzione nel merito del consigliere comunale e si era limitato e pronunciare sentenza di non doversi procedere per intervenuta prescrizione del reato.

Il ricorso della difesa dell’imputato. A fronte della decisione della Corte d’appello, la difesa dell’imputato ha presentato ricorso per Cassazione lamentando, tra l’altro, il mancato rilievo della parziale «abolitio criminis» del reato di abuso di ufficio avvenuta proprio a opera dell’art. 23 del dl n. 76/2020, certamente riguardante anche la condotta concorsuale oggetto dell’imputazione mossa a carico del consigliere comunale.

La decisione della Suprema corte. La Suprema corte ha accolto il ricorso e stigmatizzato, innanzitutto, la formulazione «generica ed equivoca» del capo d’imputazione, da cui non era possibile desumere con chiarezza quale dovesse essere il corretto inquadramento normativo del contributo concorsuale addebitato al consigliere comunale.

Più nello specifico, secondo la prospettiva dei giudici di legittimità, il tenore letterale dell’imputazione non consentiva di comprendere se la condotta contestata al ricorrente, consistente nell’aver inviato la pratica edilizia di interesse dell’assessore all’esame preliminare della commissione competente, nonostante la presunta incompletezza della stessa, integrasse una violazione di specifiche regole di settore previste dalla legge la cui applicazione era sottratta a qualunque margine di discrezionalità (regole che, però, non erano indicate nel capo d’accusa), ovvero un atto meramente strumentale all’azione illecita dell’assessore, commesso nella consapevolezza del conflitto di interesse in cui questi versava e della conseguente violazione, da parte dello stesso, dell’obbligo di astensione a cui era tenuto.

Fatta questa premessa, la sentenza in esame prosegue il proprio percorso argomentativo, analizzando brevemente entrambe le possibili interpretazioni dell’ipotesi accusatoria, giungendo alle seguenti conclusioni.

Con riferimento alla seconda soluzione interpretativa, posto che certamente la violazione dell’obbligo di astensione non era riferibile direttamente al consigliere comunale, la possibilità di ravvisare una sua responsabilità a titolo concorsuale presupponeva necessariamente la prova piena della consapevolezza di quest’ultimo circa la peculiare posizione di conflitto di interessi in cui versava l’assessore; prova che non era stata minimamente raggiunta e che certamente non poteva individuarsi nel contenuto della conversazione valorizzata dalle sentenze di merito, in cui non figurava alcun riferimento alla particolare situazione soggettiva dell’assessore.

In ordine, invece, alla prima ipotesi interpretativa, alla luce della nuova formulazione dell’abuso di ufficio, non poteva ritenersi che il semplice fatto di aver portato la pratica edilizia in commissione benché carente di documentazione (peraltro, senza che il capo di imputazione specificasse l’entità e la natura di tale carenza, né il relativo riferimento normativo) valesse, di per sé solo, a integrare «la realizzazione di un atto sottratto a ogni margine di discrezionalità riservato al pubblico ufficiale, sulla base di una specifica regola di condotta espressamente prevista dalla legge».

In base a tali conclusioni, i giudici della Suprema corte hanno ritenuto di annullare la decisione della Corte d’appello e assolvere nel merito l’imputato, ritenendo, appunto, che la condotta addebitatagli, per come descritta nel capo di imputazione e risultante dagli elementi probatori acquisiti, non presentasse le specifiche caratteristiche necessarie a integrare una responsabilità concorsuale per abuso d’ufficio, tanto più tenuto conto della parziale «abolitio criminis» intervenuta con la recente riforma del 2020.

La nuova fisionomia dell’abuso d’ufficio dopo la riforma del 2020. L’analisi della vicenda sopra descritta offre alla Corte di cassazione l’occasione di soffermarsi, ancora una volta e con un excursus tanto sintetico quanto efficace, sulle ricadute pratiche della riforma che ha riformulato la fattispecie delittuosa in esame. In particolare, i giudici di legittimità hanno sottolineato la maggior determinatezza e specificità della formulazione normativa attuale rispetto al «generico richiamo della previgente disciplina alla indeterminata violazione di norme di legge o di regolamento», ribadendo che, a oggi, il reato ex art. 323 c.p., può ritenersi integrato solamente laddove il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio, nel concreto svolgimento delle proprie funzioni, venga meno a un obbligo di astensione (ipotesi rimasta inalterata a seguito della riforma) ovvero agisca in violazione di «regole cogenti per l’azione amministrativa, che per un verso siano fissate dalla legge (non rilevano dunque i regolamenti, né eventuali fonti subprimarie o secondarie) e per altro verso siano specificamente disegnate in termini completi e puntuali», con ciò dovendosi intendere che le norme violate non devono consentire al pubblico ufficiale o all’incaricato di pubblico servizio di «agire in un contesto di discrezionalità amministrativa, anche tecnica», sempreché l’esercizio di tale discrezionalità «non trasmodi (…) in una vera e propria distorsione funzionale dei fini pubblici, cosiddetto sviamento di potere o violazione dei limiti esterni della discrezionalità, laddove risultino perseguiti, nel concreto svolgimento delle funzioni o del servizio, interessi oggettivamente difformi e collidenti con quelli per i quali soltanto il potere discrezionale è attribuito».